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Ricordo che i giorni dopo la tua morte ero ossessionata dalle fotografie. Foto di te e con te, che tutti condividevano su Facebook. A testimonianza di un’amicizia, una parentela, un episodio vissuto insieme. Tutti avevano una foto insieme a te.
Tutti, tranne la sottoscritta. Dal computer dell’ostello di Dakar non potevo accedere agli archivi di casa. Online nessuna traccia di foto di noi due taggati insieme. Stavo impazzendo. Già ero lontana migliaia di chilometri, in più sentivo come un’ingiustizia il non potermi attaccare a nessun dannato pixel che confermasse che sì, anche se non ero lì, al tuo funerale, eravamo stati amici.

Così non ho condiviso nessuna foto, in quei giorni di lutto a distanza. E nemmeno dopo.

Poi, tornata a casa, ho cominciato a fare un altro tipo di ricerca. Cercavo la parola “morte” dovunque. Su Google. Nei libri di preghiere. Nei romanzi. Nelle poesie. Nelle canzoni. Per capire. Come dare senso a questa “cosa” che ci era capitata. Che era capitata a Sara, Matilde e ai tuoi genitori soprattutto. E alcune frasi sì, ogni tanto le condividevo. Sulla tua bacheca, diventata un memoriale collettivo di persone che provano a raccontare un dolore per non lasciarlo fine a se stesso.

La prima foto “della nostra amicizia” l’ho trovata a settembre. È questa. E mi piace moltissimo. Non me ne servono altre. Non ne ho più cercate. Così come ho smesso di cercare la parola morte. Ogni tanto mi trova lei. Ma non per spaventarmi. Per ricordarmi del qui e ora. Di inshallah. Di aggiungere vita alle ore e non ore alla vita.

Non è sempre facile, ma il tuo tifo da stadio, quello che organizzi con schiere di angeli dalla tua tribuna privilegiata, per farci coraggio, ci aiuta moltissimo. Soprattutto quando siamo tutti insieme, noi che abbiamo in comune un pezzo della tua vita e della tua famiglia. Ci stringiamo forte, e non abbiamo più paura.

«Le cose visibili sono di un momento, quelle invisibili sono eterne».